venerdì 27 maggio 2016

Estiva






Buio.
Una luce danza giocosa
oltre i pini immoti.


Un vento che so
congeda primavere
e dice luce e soffochi.


Ritorna qualcosa:





un odore gentile, premuroso


un saluto, un abbraccio amico


un sorriso all'uomo


Che sogna Estate.




( pour un bonne ètè, joyeux et notre).

mercoledì 18 maggio 2016

Maino sport 1944: abbassati e pedala!

Quando ritrovai su un fienile questa bici, non aveva molto di bello da mostrare, se non un inusuale telaio a canna parallela molto leggero.
Nessun doppio diapason al posteriore ma esili e sottili tubi diritti stile bici da corsa.
Allora non sapevo datare bene le mie bici, e l'avevo scambiata per una Maino degli anni 50 60.
Il proprietario assieme alla bici mi disse che la bici, comperata dalla madre in tempo di guerra, era diversa: col tempo aveva subito l'asportazione di " un manubrio basso, con le leve strane, scomodo da matti..." e delle ruote " erano sportive, in alluminio dietro aveva la corona doppia....".

Basta.
Non do molto peso a queste parole e do una pulita sommaria alla bici, relegandola in un angolo del soppalco.
Col tempo arrivano un paio di cerchi Vianzone in alluminio raggiati su mozzi SIAMT giroruota in ferro.

E un manubrio a bacchetta molto sportivo, cadmiato,come quelli montati sulle Amerio del dopoguerra.

Spolverata la bici, scopro il numero di serie 144803, che corrisponde benissimo a un 1944.

Insomma, dopo due sere quasi insonni, la bella Maino torna a ruggire!
E scopro particolari non da poco: pedivelle super alleggerite come sulle corsaiole, con pedali a centro intero a perno forato.

Il perno del movimento centrale, montato su ghiere Magistroni, è anche esso forato: tutto deve essere leggerissimo!
Carter Pratic in alluminio!
Alle ruote non dadi, ma pratici galletti in ottone!

Guidare questa Maino è un'esperienza unica: bassa, slanciata, leggera, divora la strada e ad ogni metro sembra ripeterti una sola cosa: abbassati e.....Pedala!

venerdì 13 maggio 2016

Un bel marrone


..."e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno
come le rose "
la canzone di Marinella, F.De Andrè.

Un bel marrone

 

La strada costeggiava il canale, dritta ed impertinente.

Monsù Dorta arrancava pedalando la vecchia bici Prina acquistata in tempo di guerra da un ciclista di Torino poi morto ammazzato.

Ai tempi non era che un impiegatuccio in carriera, ma avendo il gusto del bello e del raro si decise per quella bicicletta dal colore sgargiante oro con filettini rossi e fiamme bleu.

Si era in pieno tempo di guerra, tutti pensavano a salvare la pelle e guardavano poco a certi dettagli, ma essendo lui impiegato presso la fabbrica della corrente elettrica ed essendo essa fabbrica fondamentale  posta sotto il controllo tedesco, non ebbe guai.

Sapeva vivere e sapeva comportarsi:  non mancò mai di omaggiare le mogli dei graduati con qualche bottiglia nascosta al paesello e di imparare le regole fondamentali della grammatica tedesca.

Basta: per lui la guerra non fu altro che un lungo periodo di prova che diede i suoi frutti, portandolo ad essere promosso capo stazione della centrale di Verduno.

Nel frattempo le cose con la giovane  fidanzata Gina si erano messe per il meglio e coi soldi risparmiati avevano finalmente potuto sposarsi con piccolo viaggio di nozze a Sanremo.

Soldi per la casa, non ne sarebbero serviti: essendo lui capostazione aveva diritto all’alloggio insito alla centrale , ammobiliato e confortevole, più un guardiano tuttofare che viveva nel capanno al fondo.

Lasciare Torino per quel posto di canne e rane, non fu facile per nessuno, meno che meno per Gina, abituata alle strade di Torino ed ai lussi della città, pur bombardata.

Certo, lo stipendio è buono, ma che vita faremo qui?”

“C’è aria buona e salubre, staremo meglio vedrai.”

In realtà a quelle parole non credeva nemmeno lui , l’aria era pesante e d’estate le zanzare non davano tregua.

Per un poco andò avanti ed indietro al paese con la fidata Prina, tenuta lustra come un bimbo dal guardiano Tulu.

Tulu si che stava come il papa.

Oltre al buono e sicuro stipendio, all’alloggio gratuito, si procurava un bell’extra con la vendita del pesce .

Funzionava così: una volta la settimana si doveva pulire la grata che bloccava i tronchi e le impurità che passando nelle turbine avrebbero compromesso il macchinario.

Per questo si doveva svuotare la vasca e, con malizia e arte, si riusciva sempre a rimediare qualche decina di chili di pesce.

Le osterie del posto volevano tutti bene a Tulu e quando lo vedevano arrancare con la sgangheratissima bici a scatto fisso anteguerra, sorridevano.

Per anni l’osteria Maiolino di Roreto servì i “barbi della Centrale”.

Dorta lasciava fare: contento lui, pensava, contenti tutti.

Tulu , che fesso non era, capiva e ogni anguilla finita per caso nelle maglie della sua rete si trasformava in uno splendido carpione che la signora Gina sapeva cucinare  par suo.

Dopo 3 anni di sudate e di pedalate si decise: i soldi c’erano, andavano spesi!

Il viale alberato antistante un bel mattino accolse il rombo secco e preciso del 500 Guzzi con sidecar che Torta sognava da tempo.

La moglie sgranò tanto d’occhi e nemmeno una parola , ma solo una lacrima e l’emozione del primo giro sotto il sorriso sdentato di Tulu che faceva segno di si’ con la testa.

Fu con lei che l’estate successiva partirono per la Francia e Madama Gina, giunti sul colle di Tenda, si alzò per gridare agli astanti “ Viva la Guzzi”.

Le cose si mettevano bene.

Erano cominciati gli anni 50 e già qualcosa di benessere, ma solo qualcosa e per pochi.

A Gina cominciava  a stare stretta la vita isolata in campagna e i pomeriggi di nera solitudine quando il marito era impegnato nelle ispezioni dei canali.

Andiamocene. Chiedi il trasferimento.”

“Ma come si fa? E poi la paga è ottima.”

“Non c’è solo quella. Qui non si vive più.”

Dorta andò quindi dal gran capo a Cuneo, vestito col doppiopetto del matrimonio e il profumo all’acqua di colonia.

Parcheggiata la moto nel cortile antistante, salì le scale confortato dallo sguardo del portiere che certo lo aveva scambiato per qualche pezzo grosso.

Dorta aveva passato i 40 anni ma era bell’uomo ed alto, si faceva conoscere e rispettare.

L’ingegnere lo accolse benevolmente e da subito presero a discutere dell’andamento.

Va tutto bene, ma mia moglie , sa….”

“Non si trovano bene nella casa che noi vi offriamo? Benissimo. Potete cercarne una adatta al vostro comodo. Nessuno vi impone di restare colà.”

Insomma, tanto disse che alla fine Torta tornava più disperato di prima.

Andarsene gli spiaceva.

Una bella palazzina così, col guardiano-servitore, quando mai gli sarebbe ricapitata?

Con i soldi dello stipendio che accumulati rendevano una bella somma ogni mese, così che le vacanze estive erano automaticamente pagate.

Insomma, per qualche anno si restava lì.

Gina faticò a digerire la notizia , ma si arrese di fronte alle buone ragioni del marito.

Intanto la famiglia si stava allargando: Gina lo scoprì in Marzo e a quella notizia il marito trasalì.

Non si aspettava di diventare padre, ma la cosa lo riempì di gioia.

Pur con mille pensieri per la testa,  Gina cercò di zittirsi e di compiacere il marito che, a quanto pare, restando buono sarebbe diventato un gran capo anch’egli e avrebbe di certo ottenuto l’ufficio a Cuneo.

Passò l’estate e giunse l’inverno , rigido e freddo.

La piccola Gemma nacque in casa assistita dalla levatrice che, pur con la stufa accesa ed i riscaldamenti al massimo, faticava a scaldare la stanza.

Con questo freddo , stare vicino al canal e non le farà bene. Poi fate voi.”

“ E se la portassimo a Torino? Per un po? Dai miei…”

Non se ne parla. Siamo una famiglia e qui staremo.”

Dorta era perentorio.

Andò bene.

Basta, Gemma crebbe sana e forte e a 3 anni sapeva già parlare correttamente  e muoversi per la casa .

Anche troppo.

Ora Giuseppe Dorta sedeva a fianco della bici su un ceppo e lanciava un mazzo di fiori nel canale.

La moglie era rimasta a Torino.

Dopo l’esaurimento non era quasi più uscita di casa e nemmeno al cinema o per un viaggio si schiodava dal divano.

Troppe cose c’erano da digerire e nessuno, nemmeno più lui, forte come un toro, ce l’avrebbe fatta a purgarsi da un ricordo tanto brutto.

Aveva tutto davanti agli occhi e tutto sarebbe rimasto tale per sempre.

Insomma, un bel mattino di Aprile  si era alzato senza svegliare nessuno ed era partito per il consueto giro per i canali, più per formalità che per altro.

Occorreva compilare settimanalmente dei registri e segnalare eventuali irregolarità.

Quel mattino era bel tempo di primavera , così si avviò in bicicletta lungo la strada sterrata : nessuno si sarebbe svegliato al suono della Guzzi.

Mentre Gina dormiva della grossa, Gemma era ben sveglia  , ed avvedutasi della partenza del padre, decise di seguirlo come spesso faceva nei suoi giri.

Uscita sul balcone lo vide lontano e senza disperare scese le scale e prese a correre sul terrapieno.

Fu la questione di un momento.

Nessuno vide cosa accadde, ma ella fu in un lampo rapita dalle acque .

Gina si accorse della mancanza di Gemma solo un’ora più tardi, quando tutto era irreparabile.

Quando Dorta tornò dal giro verso il mezzogiorno, la Centrale era circondata da carabinieri ed un’ambulanza che mesta rimaneva inutilizzata accanto al portico all’ombra.

Dapprima volle pensare ad un forestiero, a Tulu, infine alla moglie ma quando tutti vedendolo sbiancarono e gli fecero luogo, si rese conto dell’immane sciagura.

Un giornalista, venuto da Bra con la vespa, gli sparò un flash in faccia mentre tutti lo fulminavano come a dirgli lascia stare.

La moglie piangeva sconsolata in preda al delirio mentre un medico cercava inutilmente di darle animo.

Dov’è Gemma?”

Tulu lo prese per il braccio e lo portò in garage.

Su un tavolo al centro giaceva la spoglia immobile di Gemma, coperta da un telo bianco.

Pareva davvero dormisse e non fosse per le labbra tumefatte e bluastre, pareva persino ridesse.

Dopo un momento Tulu spiegò a Torta l’isteria della moglie, i carabinieri che arrivavano e lui che lesto si apprestava a svuotare le vasche.

Una grata l’aveva trattenuta , quella più bassa a 6 metri.

Se no chissà dove sarebbe ora…”

Ma Dorta non sentiva più nulla, piangeva e bestemmiava.

Fino a sera non ricevette nessuno e anche i carabinieri furono comprensivi, rimandando le domande al giorno appresso.

Quando tutti se ne furono andati, restarono il prete e Gosio delle pompe funebri.

Capendo che non poteva esimersi si accordò col prete per la funzione mentre di Gosio ricordava solo le parole mielose e affettate “ Gliela faremo bella, vedrà, un bel marrone chiaro…”

Gli anni erano passati e molte cose erano mutate.

Da Cuneo furono  cortesi e discreti e non ci fu bisogno di molto perché venisse assegnato ad un ufficio a Torino di grande responsabilità .

Il primo anno era tornato, trovando tutto in ordine ma desolatamente vuoto.

Nessuno aveva accettato il posto, creando una superstizione sciocca che sarebbe durata degli anni.

Solo Tulu rimaneva a guardia delle grate mentre un addetto scendeva settimanalmente dalla città a gettare un occhio.

Quel mattino , vestito di tutto punto, era sceso dalla 1100 col suo mazzo di rose bianche e si era diretto al garage.

Trovatolo aperto, riconobbe la vecchia Prina , pur arrugginita.

Una gonfiata alle gomme e di nuovo, come tanti anni fa , lungo il canale.

Era scomparsa l’allegria, la voglia di vivere e di affrontare il domani.

Il sole splendeva inutile e fastidioso.

Piovesse, pensava.

I giorni, tutti uguali e pesanti come macigni, si succedevano inesorabili come condanne.

Gettando le rose , avrebbe voluto gettare anche altro, molto, tutto.

Ma un guizzo, antico come il nascere dei giorni e della vita, glielo impediva.

Forse un domani qualcosa sarebbe mutato, forse una luce nuova avrebbe spento quella fiamma che ancora ardeva e tanto bruciava.

Forse un giorno, vicino o lontano, la vita sarebbe diventata quel che dicono i poeti, o gli innamorati: bella.

Ma sotto quel sole, davanti a quelle acque torbide, difficile sarebbe stato il crederci.